La seconda chiave di lettura delle PMI indicata da Ghiringhelli e Pero nell’opera presentata nel post…. è il ciclo di vita: gli autori individuano le sfide comuni per ognuno degli stadi, costruendo una mappa delle principali sfide che le organizzazioni affrontano durante la loro crescita. La maggior parte dei modelli sui cicli di vita organizzativi leggono l’evoluzione come basata su tre periodi fondamentali: nascita, sviluppo, rinnovamento o morte. Tuttavia questi modelli non sono del tutto soddisfacenti per le PMI perché interpretano la dimensione dell’impresa prevalentemente in termini di fatturato, ignorando altre dimensioni rilevanti come il valore aggiunto, la complessità organizzativa, il grado di cambiamento tecnologico e/o di prodotto. Gli autori, facendo esplicito riferimento alle PMI, notano che il numero di stadi è generalmente compreso tra due e cinque:
start-up, con una singola attività/prodotto prototipale
ottimizzazione della produzione e offerta sul mercato
sforzi di crescita dell’organizzazione
stabilità e/o ricerca di revamping oppure disengagement
e che quindi occorre un modello in grado di rappresentare sia gli avanzamenti che i disimpegni.
Ghiringhelli e Pero individuano nel modello di Churchill & Lewis proprio questo, sottolineando che occorre però aggiungere una mappatura dei percorsi evolutivi tra gli stadi, dato che ci possono essere tra l’altro diverse cause di mancata crescita (non mettere in discussione la distribuzione di potere, tentativi di crescita andati male ecc.)
Con la necessaria brevità che concede questo contesto e con l’invito ad approfondire direttamente sul testo in oggetto (vedi post PMI-01), provo a sintetizzare i punti che mi sono parsi essenziali in ogni stadio di vita evidenziato nel modello:
I stadio: esistenza-> L’organizzazione coincide con l’imprenditore-proprietario; la struttura è elementare, la formalizzazione minima.
II stadio: sopravvivenza->il focus si sposta sui ricavi/spese, la necessità di avere sufficiente cash per raggiungere il break-even-point, mantenere l’impresa nel mercato e finanziare la crescita. La struttura resta semplice.
III stadio: successo->dilemma decisionale dell’imprenditore: stabilizzarsi o crescere? Nel primo caso (success + disengagement) le sfide sono organizzative (trovare i “giusti” manager cui delegare parte delle decisioni operative e tecniche) e l’elemento chiave è la capacità di adattamento ai cambiamenti ambientali. Nel secondo caso (success + growth) la sfida principale è sviluppare figure manageriali in grado di gestire la crescita. Qui diventano essenziali sistemi di pianificazione strategica e operativa, nonché un robusto impegno da parte dell’imprenditore.
IV stadio: lancio-> si tratta di realizzare effettivamente la crescita. Le aree di maggiore attenzione sono la delega e le dimensioni economiche (risorse economiche e finanziarie). Ora occorre evolvere verso una maggiore decentralizzazione, istituire meccanismi di valutazione e controllo sulla prestazione e un sistema formale di gestione delle RU. Qui avviene una prima divisione tra imprenditore e impresa: per l’esito dei pattern di trasformazione organizzativa si conferma l’importanza delle caratteristiche personali e professionali dell’imprenditore. Occorre attenzione all’impatto emotivo di questo “distacco” sull’imprenditore che lo può portare ad una mancata delega e ad una sindrome di onniscienza, entrambe possono rivelarsi molto pericolose per la sopravvivenza dell’azienda. Occorre anche fare attenzione alla velocità di crescita che può andare oltre le possibilità dell’impresa.
V stadio: maturità-> questa è la fase del consolidamento in cui occorre ottimizzare i vantaggi della dimensione con la flessibilità e lo spirito imprenditoriale. Il rischio è una perdita di capacità innovativa e flessibilità decisionale, nonché di avversione al rischio (una sorta di “ossificazione” dello statu quo).
L’utilità del modello suggerito da Ghiringhelli e Pero sta nel fatto che è indispensabile distinguere tra i diversi stadi organizzativi e identificare lo stadio in cui si trova l’impresa che si sta esaminando, sia per interventi di cambiamento sia perché ciò ha valore predittivo sull’esito di certe scelte. Infatti le decisioni pregresse e la storia contribuiscono a determinare e stabilizzare le caratteristiche rendendo le strade da percorrere più o meno difficoltose. Si possono interpretare le premesse al successo o all’insuccesso alla luce delle caratteristiche necessarie nei diversi stadi evolutivi. Identificare lo stadio consente di evidenziare fattori che determinano l’esito finale delle scelte lì assunte: le risorse finanziarie e umane, i sistemi organizzativi, le risorse di business (che influiscono sul posizionamento).
La variabilità che abbiamo visto nel primo post a proposito delle caratteristiche di successo o meno delle PMI, si sviluppa lungo il punto di incontro tra caratteristiche e competenze dell’imprenditore (gli obiettivi che decide, le sue abilità operative, le sue capacità manageriali, le sue capacità di analisi strategica) e i sentieri di evoluzione organizzativa.
La terza chiave di lettura delle PMI è costituita dai distretti tradizionali, internazionali e dai sistemi produttivi locali. La capacità competitiva delle imprese nel distretto è strettamente collegata alle caratteristiche sociali, culturali ed economiche del territorio di appartenenza nella misura in cui esso mette a disposizione in modo esclusivo Know-how, esperienze, valori, coesione sociale, rete istituzionale. In questo modo le PMI nei distretti hanno costituito l’alternativa efficace alle grandi imprese. Ultimamente però emerge la questione della tenuta di questo modello anche nell’attuale contesto competitivo. La struttura tradizionale del distretto è ancora una soluzione efficace nella competizione internazionale attuale o è un modello del passato che deve essere rimpiazzato? Uno dei due approcci del dibattito attuale sulla questione, interpreta il rinnovamento distrettuale in modo meno sistemico e più aziendalista, derivante più dalle scelte e strategie delle imprese che dall’azione di coordinamento svolta dalle istituzioni. «In questo modello ha un ruolo chiave l’azione di alcune aziende leader che si distinguono per la loro capacità di far leva su innovazione e dinamismo imprenditoriale e organizzativo per aprire percorsi di sviluppo che possono costituire un’opportunità anche per le altre imprese del distretto, nonché per il distretto stesso.» Queste imprese svolgono un ruolo da gatekeeper nelle dinamiche che si realizzano nelle catene del valore internazionali, favorendo l’evoluzione dei distretti come nodi globali e offrendo opportunità di crescita e rinnovamento alle imprese del distretto (a patto che queste si rinnovino strategicamente e organizzativamente).
Gli autori, notando un aumento della polarizzazione tra best performers e imprese in difficoltà nello stesso distretto, individuano le prime grazie a questi fattori:
apertura internazionale
rapporto tra innovazione, R&S e design (più market-driven che research-driven), innovazione delle politiche commerciali
A fronte di ciò gli autori rilevano come sia confermata la troppo lenta diffusione di modelli organizzativi innovativi e delle tecnologie evolute ad esse collegate (banda larga, ERP, CRM, sistemi di supply-chein management, applicativi groupware e videoconferenza. Ghiringhelli e Pero individuano quattro modelli di imprese nel distretto incrociando due dimensioni: grado di proiezione internazionale della produzione e grado di presidio dei mercati finali:
48% con attività locale limitata al contesto nazionale
28% con radicamento locale delle attività produttive ma con un presidio del mercato estero
l’11,3% di imprese aperte a monte (con rete di approvvigionamento internazionale)
il 12,4% a rete aperta
Gli autori concludono la ricerca affermando che l’internazionalizzazione da sola non rappresenta la soluzione al sistema produttivo italiano, occorre accompagnarla a innovazione tecnologica, competenze, rete tecnologica estesa ecc. «Ciò che sembra spiegare il successo dei modelli high tech in Italia è la capacità del territorio di progettare e implementare un percorso autonomo di sviluppo diverso dal localismo autarchico e dal dinamismo locale adattivo, bensì di sviluppo delle risorse interne al territorio.»
La loro conclusione è che i fattori determinanti per la competitività delle PMI sono, tra gli altri:
la capacità di analisi e decisione di posizionamento strategico
il grado di integrazione tra innovazioni di processo, di prodotto e organizzative orientate al mercato
la capacità di entrare in network interorganizzativi di collaborazione su scala internazionale
la capacità di far evolvere i modelli di management e di gestire il passaggio generazionale.
In particolare il punto .1. vede che le PMI in difficoltà persistono nell’offrire risposte disallineate rispetto alla domanda e offerta dei concorrenti di successo; hanno una pericolosa relazione di dipendenza da altre imprese e una perdita di competenze organizzative e/o gestionali.
La domanda che gli autori si pongono a questo punto è: di che tipo e grado di cambiamento ha bisogno il sistema industriale italiano?
Al prossimo articolo.
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