“Piccolo” era un punto di forza negli anni ’70-’80 perché rappresentava un modello di specializzazione flessibile con un ruolo complementare alla grande industria. Poi negli anni ’90 la PMI è diventata una realtà predominante nel panorama economico italiano, con lo sviluppo del modello dei distretti. Negli anni 2000 l’Italia si ritrova con troppo poche imprese grandi e medie, un modello di specializzazione produttiva inadeguato dovendo confrontarsi sia con i tradizionali competitor che con quelli “nuovi”, vedi Cina). Cristiano Ghiringhelli e Luciano Pero nell’interessante opera “Le PMI in Italia – Innovazione, strategie, modelli organizzativi”
(Apogeo, Trento 2010) affrontano il tema partendo dal dibattito tra due prospettive: PMI come vincolo allo sviluppo economico italiano o come valore e risorsa distintiva?
I motivi addotti da chi sostiene la prospettiva del vincolo allo sviluppo sono:
la governance per lo più familiare
la specializzazione produttiva in settori ad alta competizione da parte dei Paesi emergenti
la scarsa possibilità di promuovere innovazione e sostenere spese R&S
l’insufficiente grado di apertura agli investimenti diretti esteri e di livello
insufficiente livello di internazionalizzazione
forte dipendenza dal credito bancario: no venture capital, no trasparenza infrastrutture e delle norme di quotazione in borsa
ostacoli burocratici e legislativi.
Chi invece propende per la seconda prospettiva riconosce alle PMI
Una spiccata inclinazione a interpretare le contingenze e attivare risposte organizzative molto più veloci rispetto alle grandi imprese
Eccellenza nel made in Italy e alto contenuto tecnologico
Condivisione di conoscenze, relazioni interpersonali e capitale sociale sedimentato nel territorio
Genialità nelle strategie di nicchia
Abilità nelle produzioni su misura.
Una terza prospettiva consiste nell’indagare le relazioni di complementarietà tra piccola, media e grande impresa e le possibili direzioni di intervento per far evolvere il sistema produttivo in questa direzione. In linea con questo approccio Ghiringhelli e Pero indagano i temi chiave della questione. Ciò che soprattutto è interessante, a mio parere, è il fatto che gli autori non espongono unicamente una mera disanima dei problemi (che di per sé sarebbe comunque di valore), ma offrono spunti di partenza concreti dai quali imprenditori, manager, attori della pubblica amministrazione e in generale tutti gli stakeholder possono riflettere e prendere decisioni strategiche e operative immediate.
Dunque mi propongo in questo e nei prossimi post di presentare i punti salienti dell’opera, con l’invito ad approfondire con la sua lettura il tema che si percepisce come prioritario per la propria realtà.
Tanto per iniziare, «i deficit del sistema Paese sono sassi che inceppano lo sviluppo: crediti incassati con tempi biblici, banche che non danno credito, problemi di liquidità per le PMI. Senza buona finanza non si cresce». Senza investimenti è difficile fare innovazione. Però gli autori nell’ampia ricerca hanno individuato parecchi casi virtuosi: questi sono il risultato di una multidimensionalità integrata e coerente, piuttosto che di un fattore singolo. Bisogna quindi spostare il focus dalla questione dimensionale in sé, alle variabili organizzative decisive: i fattori intra e inter organizzativi, il ruolo dell’imprenditore, le configurazioni manageriali e gestionali che possono spiegare le diversità di prestazione e competitività della popolazione delle PMI (99% delle imprese in Italia). Le 3 chiavi di lettura sono:
la configurazione strategica (e le strategie di posizionamento competitivo)
il ciclo di vita (la storia dell’impresa)
i distretti (tradizionali, internazionalizzati, i sistemi produttivi locali)
1° chiave: la configurazione strategica
Le scelte strategiche riguardano aspetti collegati alla coerenza tra caratteristiche interne all’organizzazione e ambiente esterno. In una ricerca condotta su 500 imprese con più di 19 addetti e fatturato ≥ 3 mln Eur sono emersi 7 profili PMI con differenze significative sui piani strategico, organizzativo, tecnologico, operativo:
Piccole schegge vitali: molto dinamiche, innovative, management giovane, network, scarsa propensione a operare all’estero.
Good Players: governance fortemente centrata sul fondatore e famighlia, propensione all’innovazione, qualche attività estera.
Capitalismo famigliare ad elevata intensità di innovazione incrementale.
Segmenti bassi della filiera: dipendenti da altre imprese, molto distanti dal mercato finale, scarsa innovazione e basso fatturato.
Piccolo e medio capitalismo: bassissima innovazione, piccola dimensione, perdita di competitività, subfornitura.
A rischio di competitività: comparti manifatturieri maturi, strategie di mercato non efficaci.
Innovatori in crisi: innovazione imitativa e poco organica, strategia inefficace.
L’elemento chiave che spiega maggiormente il ritardo sembra essere la persistenza a dare risposte tradizionali a un mercato e domanda divenuti dinamici e molto diversificati, insomma le “non scelte” di posizionamento strategico. Tuttavia molte attivano network internazionali (metadistretti), implementano strategie di nicchia che valorizzano la piccola dimensione attraverso capacità manageriali, focus su innovazione e visione di mercato.
Nei prossimi articoli le altre due chiavi e le conclusioni sui fattori determinanti della competitività.
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