In questo episodio parliamo dello sviluppo del bisogno di potere e in particolare dei suoi stadi di sviluppo.
Ho estratto e vi propongo alcuni brani di Judith Viorst, che nella sua opera “Sotto controllo” edita da Frassinelli, ci spiega come si sviluppa il bisogno di potere, quali possono essere gli intoppi durante tale percorso, quali distorsioni possono derivarne, e quale sia lo stadio in cui il bisogno sfocia in una sua sana espressione.
Nel cercare di capire la sottomissione morale a un leader, il terapeuta Max Rosenbaum, curatore del libro Compliant Behavior, si focalizza sulla trascendenza promessa ai discepoli tale da generare la sensazione di appartenere a qualcosa di più grande di loro.
E riprendendo questo punto, Peter Olson scrive che la lezione da apprendere è l’insaziabile desiderio umano alla sottomissione.
Questo desiderio di sottomissione può a volte essere spiegato, spiega Brown in Compliant Behavior, in termini di gravi fallimenti avvenuti nelle prime fasi dello sviluppo, che hanno provocato un’insufficiente autostima e una generale sensazione di vuoto.
Per colmare questo vuoto si cerca una sorta di identità comune, fondendosi con qualcuno o qualcosa che viene percepito come più grande di sé.
Tuttavia, anche se la resa ha un potere più grande di noi e può portare a conclusioni apocalittiche, esiste un altro lato più positivo.
Infatti, si è sostenuto che la volontà di arrendersi esprima al più alto livello di maturità umana.
David McClelland in un libro su ciò che definisce l’esperienza interiore del potere, offre un’analisi psicologica di come progrediamo fino a questo stato di resa matura, definendo il potere come innanzitutto il bisogno di sentirsi forti e secondariamente di agire in modo potente.
Egli descrive quattro stadi diversi dello sviluppo del potere.
Lo stadio uno inizia quando il neonato prende forza da una sorgente esterna che è la madre. Il potere è ottenuto tramite la dipendenza. Questo modo di sentirsi potenti può persistere nella vita adulta e allora si ricerca la forza negli amici o nel coniuge, oppure si lavora per un miliardario o per un senatore o per un politico.
Un pericolo per le persone che si trovano in questo stadio, qualora non riescano ad attingere al potere che cercano, è di ricorrere alla droga o all’alcol per avere le riserve esterne necessarie a rafforzarsi.
Nello stadio due, mentre impariamo ad autolimitarci e ad autoaffermarci, ci spostiamo dal controllo esterno a quello interno. Riusciamo a dire “mi rafforzo” cercando la forza non fuori ma dentro di noi, imparando anche a dire di no, prendendoci cura del nostro corpo, della nostra mente, ottenendo quello che vogliamo attraverso i nostri sforzi, soddisfiamo i nostri bisogni di forza, esercitando la nostra volontà e la nostra autonomia.
Uno dei pericoli in cui incorrono le persone allo stadio due è la mania ossessivo-compulsiva, cioè un bisogno di controllare tutte le proprie azioni e i propri pensieri. In alcuni casi si diventa schiavi di
rituali del tipo “non voglio mettere il piede sulle fessure del marciapiede”.
È stato anche osservato che, mentre le persone allo stadio uno sono più angosciate da eventi che riguardano la perdita di sostegno esterno, quelle alle prese con lo stadio due sono più angosciate da eventi che comportano la perdita di controllo del proprio destino.
Nello stadio tre potremmo dirci “ho un impatto sugli altri”, perché ora iniziamo a sentirci potenti esercitando il controllo su persone nel mondo esterno, influenzandole e convincendole, superandole in astuzia, gareggiando con loro e riuscendo a sconfiggerle.
A volte come tattica di dominio offriamo persino aiuto. Perché se gli altri lo accettano, riconoscono di essere più deboli di noi.
Ma per quanto siamo disposti ad aiutare, dovremmo raggiungere lo stadio quattro prima di poterlo fare senza manipolare gli altri, prima di offrire un aiuto senza lo scopo, conscio o inconscio, di esercitare il controllo caratteristico dello stadio tre, in cui la patologia può portare i genitori a soffocare i figli e a cercare di controllare la loro vita in nome dell’amore.
A volte possono crearsi così dei dongiovanni che cercano di sentirsi forti sconfiggendo i rivali e stabilendo il proprio potere sessuale sulle donne. Può anche generare persone che considerano amici solo coloro che sono a terra sofferenti, impotenti, rifiutati, malati, quelli sommersi dai guai e che hanno comunque bisogno dell’assistenza di una persona sana, capace e potente come lei.
Arrivati allo stadio quattro, cioè la fase più avanzata dell’espressione della forza del potere, potremmo, subordinando gli obiettivi privati a un obiettivo o ad una autorità più grandi, dirci qualcosa del tipo “è emozionante fare il proprio dovere”.
È lì che possiamo trarre la forza attraverso atti di auto-subordinazione, servendo da strumento a un potere o ad uno scopo superiore operando per conto di qualche organizzazione, per una causa politica, oppure una fede religiosa.
Possiamo volontariamente scegliere di sacrificare la vita per il nostro Paese, rammaricandoci di averne una sola da offrire. Oppure potremmo dire con gratitudine, ripetendo le parole del Salmo 18, “il Signore è la mia roccia, la mia fortezza, il mio salvatore, il mio Dio, la mia forza”.
Per McClelland la patologia dello stadio quattro può condurre a tutti gli orrori che vediamo sia nella Storia, sia quotidianamente. Quello che una persona non si sente di fare per proprio conto lo farà come dovere nei confronti di una autorità superiore.
I giochi di potere che si fanno in nome di un’autorità collettiva sono più “legittimi” e quindi potenzialmente molto più dannosi di quelli basati sull’autorità personale.
Tuttavia McClelland sarebbe certamente d’accordo sul fatto che si può servire Dio senza diventare inquisitori, fare la Rivoluzione francese senza essere dei Robespierre, far parte del movimento femminista senza iscriversi al gruppo “facciamo gli uomini a pezzettini”.
Rinunciare agli interessi del Sé in nome di qualcosa di più grande non deve necessariamente portarci a perdere noi stessi nel processo.
Una resa matura a qualcosa che va oltre noi stessi non significa una resa del controllo morale.
Se cediamo il controllo morale, potremmo incolpare Dio, il governo, delle azioni immorali che compiamo.
Ma esistono altri modi per giustificare il male che facciamo: possiamo sostenere con convinzione che non eravamo in grado di controllarci, perché l’autocontrollo era oltre le nostre capacità, perché il nostro autocontrollo era stato compromesso da cattivi genitori, da cattivi geni, dalle droghe, da cose terribili a cui venivamo sottoposti.
Eravamo molestati, non amati, adottati, incompresi, eravamo danneggiati biochimicamente da farmaci pericolosi o da un eccesso di cobo spazzatura.
Eravamo spinti a fare quello che abbiamo fatto o dalla nostra natura, o dal coniuge, o da disagi vari, o da un ambiente di lavoro ostile.
Ebbene, potete leggere casi del genere in tutti i quotidiani.
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