… e quindi, di quale innovazione ha bisogno il sistema produttivo italiano?
Ghiringhelli e Pero cominciano le loro riflessioni partendo da un caso di innovazione nell’innovazione: la piastrella “Relux” lanciata dalla Polis (manifatture ceramiche, 270 dipendenti nel distretto di Sassuolo, Modena). L’azienda in questione riutilizza vetro di scarto dei neon fuori uso per produrre questa piastrella in gres porcellanato, che essa stessa definisce “etica ad alta tecnologia”. Relux è il frutto di due anno di ricerche che hanno coinvolto Polis, l’Università di Modena-Reggio Emilia e Relight, un’azienda che si occupa di raccolta, trattamento e recupero delle lampade fluorescenti. Al lancio sul mercato ha avuto la speciale menzione di miglior prodotto del premio Impresa-Ambiente della Ue.
Gli autori sottolineano che «si tratta di un’innovazione nell’innovazione, poiché al di là del piano tecnico […] si è estesa al piano simbolico/valoriale (la piastrella “etica”) […]. Inoltre si tratta di un’innovazione “aperta”, poiché è stata realizzata per mezzo di processi permeabili ai confini di più organizzazioni: imprese e università».
In alcune nicchie, le PMI italiane non solo tengono il passo con la competitività internazionale, ma addirittura sono leader.
Citando un lavoro di ricerca di Hall, Lotti e Mairesse, gli autori sottolineano come molte PMI italiane facciano “innovazione senza ricerca”, visto che sono «non meno innovative delle loro omologhe straniere, nonostante investano meno in attività di R&S formali e informali.» Questo fatto è una delle conseguenze della realtà attuale italiana in cui operano le PMI: è necessario un riposizionamento competitivo del sistema industriale italiano (abbandonando la specializzazione in settori tradizionali a basso contenuto tecnologico), una riforma del sistema di accesso al credito e delle infrastrutture. Gli autori individuano tre aree di innovazione possibili per le PMI su cui focalizzare l’attenzione:
L’innovazione attraverso il rapporto con il cliente.
Spesso le PMI sono fortemente orientate al compito e troppo poco alla relazione: non si curano di comunicare e valorizzare la loro qualità, nonostante il rapporto con il cliente finale abbia un’importanza decisiva e sia un canale preferenziale anche per l’apprendimento organizzativo. Le PMI finiscono per lavorare all’ombra di altre imprese e i cambiamenti vengono recepiti in ritardo, così le risposte messe in atto sono spesso organizzativamente incoerenti (come tagliare i costi fino a perdere le competenze e la competitività). Le PMI devono diventare meno labour-intensive e più brain-intensive. È indispensabile presidiare il rapporto impresa<-> ambiente esterno, ponenosi come business partner e non come agente subalterno. Un esempio per “cambiare gioco” è entrare in collaborazione co altre imprese per attività di sperimentazione e ricerca applicata.
L’innovazione manageriale e organizzativa.
La sfida per le PMI è «sviluppare un orientamento strategico all’innovazione non solo di prodotto e di processo, ma anche manageriale e organizzativa».
C’è una crescente rilevanza degli asset immateriali (gestione del marchio e del brand, design, packaging e le azioni volte a collegare all’output dell’impresa un significato, valore, stile di vita, di valenza critica strategica). Occorre attivare meccanismi di apprendimento organizzativo e gestione della conoscenza (anche di quella nascosta dietro alla pratica e all’esperienza).
DA UN APPROCCIO REATTIVO (ATTENDISMO) A PROATTIVO (ANALISI DIRETTA DELL’AMBIENTE)
Il problema non è tanto il o i settori in cui operano le PMI, quanto il fatto che debbano essere ripensate le attività ivi svolte: occorre far avanzare continuamente la frontiera dell’applicazione di conoscenze in questi settori. L’ostacolo nel far questo è che gli imprenditori di solito preferiscono attendere che nell’ambiente si stabilizzi la direzione innovativa (dopo che si sono ridotte le varie opzioni innovative) cercando poi di inserirsi velocemente grazie alla flessibilità dell’organizzazione (che così viene sovrastimata come leva). Ma questo è un orientamento reattivo. L’approccio proattivo prevede invece di analizzare direttamente l’ambiente esterno, favorendo cambiamenti radicali.
Quindi gli autori si arrivano a delineare il
Cambio di paradigma necessario: da closed innovation a open innovation.
Il processo closed innovation prevede un unico input (la base scientifica e tecnologica dell’impresa) e un unico output (l’introduzione nel mercato del risultato della R&S). Invece l’open innovation si realizza in un processo esteso e distribuito nel quale diversi attori partecipano allo sviluppo dei prodotti e alla creazione di conoscenza. I confini dell’impresa divengono permeabili, rendendo condivisibili proprietà intellettuale, idee, persone. I flussi di conoscenza verso l’interno dell’organizzazione provengono dai clienti, dalle reti inter-organizzative e di relazioni, dalla partecipazione ad altre imprese, dall’acquisto di licenze, brevetti, marchi ecc. I flussi di conoscenza in uscita dall’organizzazione sono costituiti da creazioni di nuove organizzazioni tramite operazioni di venturing (spin-off e spin-out), gestione della proprietà intellettuale (concedendo licenze ad aziende esterne), apprendimento organizzativo. Dato che il maggior problema delle PMI è la commercializzazione e presidio della rete di vendita e del rapporto con il cliente, l’open innovation è vista come mezzo per inserirsi in nuovi mercati e offrire un servizio più puntuale al cliente. Le principali barriere alla sua adozione sono di natura organizzativa, manageriale e culturale.
Lo studio di van de Vrande et. Al del 2009 citato dagli autori suggerisce un percorso di adozione dell’open-innovation da parte delle PMI che prevede dapprima di coinvolgere i clienti per poi coinvolgersi in reti collaborative con l’esterno e infine arrivare a forme più evolute quali licenze di proprietà intellettuale, venturing e partecipazioni esterne.
Nel prossimo articolo le idee guida per il rilancio dell’innovazione.
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