Deborah G. (nome di fantasia per proteggerne la privacy), 32 anni, lavorava nella gestione patrimoniale di una banca. Il suo ruolo era molteplice: la parte operativa richiedeva di assistere il responsabile del portfolio management nelle decisioni di reinvestimento, mentre quella più strategica richiedeva di seguire i mercati, raccogliere dati e seguire le notizie per fare previsioni di cambiamento nelle strategie di investimento. Quest’ultima parte è quella che le interessava di più, ma “si sabotava”, come diceva lei. Per sviluppare questa parte per lei più interessante, avrebbe dovuto seguire una formazione di analista finanziario, ma non si azzardava perché, sapendo essere il percorso faticoso, si chiedeva se ne valesse la pena: «È faticoso, devo studiare molto, e poi? Mazzo tanto per che cosa, ne vale la pena?» diceva con espressioni colorite, ma con tono garbato.
«Mi manca un fine, un ritorno. Vorrei essere utile per le persone meno fortunate. Mi manca la parte etica, morale. La parte sociale dell’economia». Le chiesi cosa le piacesse del suo lavoro, e lei: «Mi piace quando ci sono giornate con un po’ di adrenalina». Indagammo il tema della pressione. Per lei la pressione era positiva quando era coinvolta nelle cose, c’era progettualità, c’erano da prendere decisioni con gli altri in modo paritario. Era invece negativa quando c’erano troppe cose da fare: «Mi buttano sulla scrivania la patata bollente e io salvo». Questo era un punto importante, senz’altro da approfondire, ma il colloquio volgeva al termine e concludemmo quindi riassumendo cosa l’avesse colpita di più nella nostra conversazione. Per lei fu il fatto di “poter scomporre l’economia nelle parti emotivamente significative”.
Nella sessione di counseling seguente tornammo sul tema del salvataggio che lei sembrava effettuare nei confronti di capi e colleghi sul posto di lavoro. Lei lamentava una mancanza da parte degli altri di rispetto per il tempo altrui, di riconoscimento per gli sforzi fatti, una mancanza di trasparenza e una forte invadenza («aprono la posta anche cartacea, sorvegliano»), e naturalmente il fatto di ritrovarsi a fare il lavoro altrui.
Finalmente cominciava a delinearsi l’obiettivo, ciò che l’aveva portata in counseling: «Vorrei essere centrata, cioè non essere sulle difensive. Quando mi sento libera mi esprimo come sento di poter fare. Non ho paura del giudizio, né di concentrarmi su cosa sia meglio fare. Ma ho molta paura che se non difendo il mio territorio… mi sento diventare aggressiva. Sento che il mio ruolo lì dentro non è ben definito». Sondammo insieme il tema del ruolo, com’era attualmente e come sarebbe stato sostenibile secondo lei. Deborah lo definì in termini concreti e operativi soprattutto per ciò che concerne i compiti e i limiti di orario («vorrei fare massimo il 70% del tempo in compiti amministrativi, almeno il 30-40% in compiti gestionali, il tutto restando nelle otto ore»). Concordammo il compito da lì alla prossima sessione: effettuare piccoli passi verso una situazione sostenibile come da lei definita, tornare a delegare e continuare a dire di no quando era il caso.
Un paio di colloqui successivi facemmo il punto degli obiettivi raggiunti al momento, che Deborah riassunse così: «Non è tutto da buttare. Ho focalizzato meglio la situazione e mi sono accorta che ciò che sta sotto brilla di più. Sono più serena, è come se avessi dato un nome alle cose». Le chiesi quindi cosa avrebbe voluto ottenere ora sul suo attuale posto di lavoro: «Voglio sapere dove mi metto nel lavoro, voglio dire ai miei capi “dammi un posto”, che sia quello, definito e chiaro. Voglio mettere i paletti. E poi voglio avere più serenità nelle relazioni e più passione nel lavoro. Voglio lavorare per ottenere soddisfazione, sentirmi competente, accettata, riconosciuta. Per me è importante l’etica professionale. Voglio essere riconosciuta anche per quella». Deborah sostenne di aver paura di boicottarsi e si chiese: «Come posso aiutarmi?» Tuttavia disse anche di “sentirsi in marcia”, che aveva fatto qualche passo. Disse di sentirsi più “colorata”, più viva. Aveva tanta voglia di procedere nel suo percorso di scoperta.
Successivamente, imparò a riconoscere la voce sabotatrice, a darsi sostegno nel percorso, abbassare l’asticella degli obiettivi e celebrare i progressi ottenuti. In quei momenti il nostro focus si spostò temporaneamente su un importante colloquio che avrebbe avuto a breve con la direzione, per il quale voleva prepararsi dettagliatamente visto l’impatto che esso avrebbe avuto sulla sua carriera. Nel contempo, uno dei suoi compiti di homework sarebbe stato quello di ricostruire cronologicamente le esperienze lavorative, formative ed extra professionali, per desumere le competenze (sapere, saper fare e saper essere) come previsto nella parte ricostruttiva che le proposi del bilancio delle competenze. Riprendemmo poi i colloqui sul tema del porre i confini, saper dire no quando serve, evitare di salvare.
Il percorso si concluse dopo otto mesi con la sua decisione di iscriversi ad un MBA che le sarebbe stato utile per proseguire nella sua carriera.
Rivedo Deborah nel follow-up dopo circa un anno, durante il quale ci sono state tra noi alcune telefonate ed e-mail di aggiornamento, vista la lontananza geografica: è diventata dirigente, responsabile di una sede distaccata all’estero di cui è stata promotrice nella fase di start-up.
Ricopre il suo ruolo di responsabilità con dolce fermezza.
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