Nel precedente articolo “Aziende resilienti 3” ho esposto il pensiero di Hobsbawm secondo cui il capitalismo (inteso come modalità di organizzare l’economia) ha iniziato a segare il ramo su cui siede ormai a partire dai lontani anni ’70, e di come l’economia si sia scissa dall’etica e dalla morale. Proseguendo nel ragionamento, pesco a larghe mani dall’articolo di Fabio Ranchetti “L’individuazione del valore dal punto di vista economico” (dalla rivista Spunti dello Studio di Analisi Psicosociologica), che ci porta a riflettere sulla necessità di riprendere una prospettiva che integra l’economia con l’etica e la morale.
Per far questo, egli parte dal considerare il concetto di valore, termine che ha sempre indicato fin dall’antichità tutto ciò che viene per qualche ragione apprezzato. La parola ‘valore’ pone immediatamente un problema: sono le cose che valgono in sé e per sé, oppure noi attribuiamo valore a cose che per se stesse potrebbero essere anche insignificanti, o addirittura essere dei non-valori? È intanto evidente che occorre distinguere, parlando di valore, tra una posizione soggettiva e una oggettiva, e non confondere le due.
Detto questo, il punto di vista dell’economia, riguardo al concetto di valore, è parziale, perché incorpora una determinata concezione del mondo. Tanto per cominciare non esiste una sola teoria economica, ma ce ne sono diverse, ognuna riguardante diverse concezioni del mondo o, se vogliamo, differenti filosofie. Riguardo al tema del valore, possiamo distinguere due grandi teorie economiche: quella classica del valore-lavoro, e quella moderna e contemporanea del valore-utilità (o scarsità).
Per la prima, il valore delle cose deriva dal fatto che sono prodotto del lavoro umano; l’attività produttiva umana, rivolta alla produzione di merci e quindi di valore, è un’attività conforme a scopi, quindi nei prodotti sono inclusi i fini, cioè gli aspetti soggettivi dell’attività umana. Secondo la teoria classica, le merci e i servizi valgono in quanto prodotto del lavoro umano. L’insieme di merci e servizi costituiscono la ricchezza delle società, quindi alla base della ricchezza sociale c’è il lavoro: il lavoro è la ‘causa’ della ricchezza sociale. Dietro a questa teoria del valore-lavoro c’è la filosofia per cui solo l’individuo che lavora acquisisce cultura e potere, chi non lavora diviene ‘povero’ e ‘servo’.
Secondo la teoria economica moderna e contemporanea invece, le cose e i servizi hanno valore in quanto sono scarsi, cioè nello stesso tempo utili e disponibili in quantità limitata. Per questa teoria economica, utilità significa la capacità di soddisfare un qualsiasi bisogno o desiderio di un qualche soggetto, ed è assolutamente irrilevante la qualità morale o ideale della cosa o del fine per cui viene ricercata. La teoria economica moderna separa nettamente i fini dai mezzi: si limita a considerare l’appropriatezza o meno delle cose in quanto mezzi rispetto a tali fini (razionalità strumentale: ovvero come ottengo X con i mezzi che ho ad un costo minimo), considerando i fini come un fattore esterno alla teoria, che non entra quindi in considerazione. Quindi questa teoria è la teoria della scelta razionale in presenza di scarsità. La concezione del mondo che sta dietro essa è quella dell’utilitarismo: l’essere umano sceglie sempre ciò che gli procura maggiore felicità o utilità (vedi il mio post aziende resilienti 3).
E veniamo ai punti della teoria economica contemporanea che hanno rilevanza col nostro tema. Il primo punto riguarda cos’è il mercato, cosa può fare e cosa non può fare. Il mercato non è l’unico modo per organizzare e regolare l’attività economica e i rapporti economici: prima dell’avvento del capitalismo e della rivoluzione industriale, sono esistite società senza mercato o con un mercato con funzione non predominante. Il mercato è divenuto forma sociale dominante solo quando tutti i prodotti e le attività sono diventate merci, e i rapporti sociali sono diventati completamente subordinati a quelli mercantili. Il mercato è diventato il ‘cemento’ della società, una “mano invisibile” che guida e conduce gli individui a realizzare, inconsapevolmente e senza volerlo, il benessere generale. È il mercato che fa sì che gli sforzi individuali ed egoistici non conducano ad un caos generale bensì ad un equilibrio generale.
A questo punto Ranchetti solleva tre domande cruciali:
Perché il mercato è una cosa così positiva?
Quali sono, se ci sono, i limiti del mercato? Ovvero:
qualsiasi attività umana deve necessariamente rientrare in una forma ‘mercato’ per produrre il miglior risultato, oppure ci sono delle attività che potrebbero svolgersi meglio se la loro organizzazione non fosse affidata al mercato?
Le risposte nel prossimo articolo, “aziende resilienti 5”.
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