I dati di recenti ricerche condotte a livello mondiale dall’OCSE mostrano alcuni fatti che vanno in senso contrario alla nostra percezione comune: il tasso di self-employment è inversamente correlato al PIL di una nazione; la maggior parte delle start-up si concentra nei settori a basso valore aggiunto, invece che nei settori in più rapida crescita. L’imprenditore tipico è di mezza età, svolge un’attività comune, vuole essere “il capo di se stesso”. L’impresa più comune ha performance non sempre molto buone e la sua vita media è inferiore ai cinque anni. La nostra non è un’epoca particolarmente imprendioriale e per di più “sono pochi gli imprenditori che producono valore, creano occupazione, incoraggiano l’innovazione, rendono più competitivi i mercati e danno slancio alla crescita. Gli imprenditori non sono affatto tutti uguali” (Castelli, Garruccio, 2010).
Al di là di queste considerazioni (che ci fanno pensare all’imprenditoria come un ripiego, una via intrapresa quando non ci sono alternative), e del fatto che non tutti gli ambienti in termini di istituzioni, regolamenti, infrastrutture, facilitano la vita all’imprenditorialità (quando non la intralciano tout-court), rimane intrigante indagare la natura alquanto sfaccettata e affascinante del ‘vero’ imprenditore, quella figura cioè che nell’immaginario collettivo rimane concreta eppure sfuggente nella definizione delle sue caratteristiche.
“Perché certe persone diventano imprenditori? Perché loro, e non altri, scorgono opportunità praticabili? In quale modo pensano gli imprenditori? Insomma, esiste una Persona imprenditoriale?” Sono queste le domande che hanno guidato la ricerca di Stefano Castelli e Roberta Garruccio (“Imprenditori”, edito da Bruno Mondadori nel 2010), effettuata facendosi raccontare da trentun imprenditori della provincia di Milano le loro storie, cercando di trarne gli elementi comuni e una sorta di fil-rouge. Nelle storie degli imprenditori intervistati, scopriamo che nei loro fini c’è spesso molto altro oltre al profitto.
Gli studi economici classici vedono tre temi di fondo attorno ai quali si sviluppa il concetto di imprenditore: il primo ruota attorno ai concetti di rischio e arbitraggio: l’imprenditore è colui che assorbe il rischio (assicurabile) e l’incertezza (non assicurabile) connessi a qualsiasi transazione, e alla fine ne reclama il residuo (secondo la prospettiva settecentesca di Cantillon, che coniò la parola stessa entrepreneur). Negli anni Trenta Knight aggiunse che l’imprenditore sopportando il rischio, da cui estrae il profitto, conduce il mercato ad un equilibrio. Con una sorta di ruolo di middleman, partendo da una situazione di disequilibrio, l’imprenditore fa arbitraggio tra prezzi differenti, riportando il mercato in equilibrio. Il secondo tema riguarda il coordinamento dei fattori produttivi (slegato, secondo l’economista ottocentesco Say, dalla proprietà dell’impresa) che, insieme all’assunzione del rischio, compaiono tutt’oggi nella definizione dell’imprenditore dal punto di vista economico. Il terzo tema riguarda l’innovazione intesa come shift di paradigma e qualificante dell’imprenditorialità secondo Schumpeter (1934 e 1939). Egli vede le motivazioni dell’imprenditorialità come desiderio di conquista, gioia di creare. Se Schumpeter vola alto, Kirzner più prosaicamente punta l’attenzione sulle capacità di scoperta. Comunque entrambe le prospettive (innovazione come creazione o come scoperta) illuminano alcuni aspetti di fondo: l’immaginazione, l’abilità nel formulare congetture sul futuro, la fedeltà a proprie convinzioni, principi e impegni presi. L’unicità dell’imprenditore (e il nesso imprenditore-opportunità) sta nella sua capacità di “percepire il mondo in modo diverso, nel credere in qualcosa in cui è il solo a credere e nell’avere forza sufficiente per agire di conseguenza.”
Così arriviamo nel territorio della ricerca psicologica, che indaga il rapporto personalità/ambiente nello spiegare il comportamento imprenditoriale. Mentre l’ambiente (estrazione familiare e rete sociale) pare avere più influenza sul fatto di diventare imprenditori o meno, il successo di chi lo diventa sembra influenzato dalla combinazione di intelligenza, capitale umano del padre, alto livello d’istruzione della madre, posizione sociale della famiglia e anche il fatto che il padre abbia avuto cariche dirigenziali o attività in proprio. Propensione al rischio e fiducia in se stessi pare abbiano un ruolo minore, anzi, un’over-confidence sembra collegata al fallimento imprenditoriale. Gli imprenditori sembrano in generale più ottimisti della popolazione normale, ma non c’è una relazione lineare tra ottimismo e successo.
Nei racconti degli imprenditori intervistati emerge un surplus di energia e una grande disciplina, che applicano non solo negli affari, ma anche nella dedizione verso sport spesso praticati ad alto livello e nell’organizzare altri aspetti della propria vita, dagli svaghi alla conoscenza di sé. Evidenziano ragioni morali che guidano le loro azioni e che si connettono con la loro identità. Si riferiscono con sicurezza alla loro razionalità intesa come processo di apprendimento costruito sulla realtà quotidiana. E poi l’umorismo, l’ironia, la capacità di vedere più lontano, l’intuizione, l’equilibrio tra analisi e sintesi, l’umiltà (qualità assai rara oggigiorno) tesa a verificare continuamente le proprie convinzioni. Sono persone capaci di vivere continuamente allerta, sul chi va là, attente ai cambiamenti.
In modo originale, attingendo alla fisica dei materiali, i ricercatori concettualizzano il fenomeno dell’imprenditorialità come il risultato di qualcosa che emerge dall’incontro tra individualità e ambiente. “L’interfaccia è un difetto esteso, un luogo in cui il materiale per tanti aspetti ‘buono’ inizia a presentare caratteristiche inattese e singolari”. Dall’incontro tra l’individuo imprenditore e gli eventi a volte casuali della sua vita, si sviluppano le sue scelte: nelle storie raccontate dagli imprenditori intervistati dai ricercatori, emerge che per loro è stato importante “non solo fare la cosa giusta (date le conseguenze che si possono prevedere), ma anche farla per le ragioni giuste (dati i principi che si condividono)”. Nelle loro testimonianze si staglia un elemento comune: quello di identificare gli atti “che si rivelano come fonti di identità personale attraverso il tempo”.
Ė questa grande coerenza che crea un disegno di vita, se la si guarda a posteriori. Ė questa l’intima essenza del loro concetto di autonomia, per come emerge in modo netto dalle loro narrazioni. Ed è qui il senso della scelta degli autori di riportare un brano dalla Mia Africa di Karen Blixen, richiamata da un’imprenditrice intervistata, come epigrafe del libro: il percorso di una vita si lascia infine guardare come un disegno che ha senso? Ecco allora anche la scelta metodologica della ricerca: proporre interviste di profondità, lasciando libera la narrazione e la ri-costruzione della propria storia. E così emergono storie simili, ma uniche e irripetibili, dove ogni individuo “mescolando gli accidenti alle sue intenzioni, non ricalca mai le orme di un altro, non ripete mai il medesimo percorso, non si lascia mai indietro la medesima storia”. Ma da queste similitudini, da queste sequenze di atti che creano particolari disegni di vita, emerge da questi individui la Persona Imprenditore.
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